16 Luglio 2024
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Palermo: vent’anni con i migranti grazie all’italiano

DI ALESSANDRA PERRICONE
Era il 2003 quando presso il Collegio dei Gesuiti di Palermo si costituì un gruppo di volontari, di cui molti appartenenti alla Cvx, spinti dal desiderio di agire a favore dei migranti extracomunitari presenti nel territorio.

P. Vincenzo Sibilio S.I., allora rettore dell’Istituto, intercettò quel desiderio e ne individuò una possibile realizzazione nell’insegnamento della nostra lingua. Le attività ebbero quindi inizio con l’organizzazione di una scuola d’italiano per migranti che desse agli studenti maggiori opportunità di contatto, per meglio inserirsi nella città di Palermo.

Costruire un futuro diverso per i migranti arrivati a Palermo

Presto però nacque l’idea di offrire loro qualcosa di più della formazione linguistica, di partecipare, cioè, alla costruzione di un nuovo futuro per chi aveva alle spalle un passato tanto doloroso.
Per questo bisognava anzitutto comprendere a fondo i problemi di uno straniero a Palermo, lasciandosi quindi guidare dallo stile che i volontari in questione praticavano nei loro incontri in particolare all’interno della Cvx: quello della condivisione di vita, che, da allora in poi, divenne il tratto distintivo dell’Associazione Centro Astalli per i migranti a Palermo.

In breve, il Centro si trasformò in un importante punto di riferimento per immigrati provenienti da tutti i continenti e per un numero sempre maggiore di volontari, tra cui si contavano anche professionisti che prestavano gratuitamente il proprio servizio nei vari ambiti: giuridico, medico, psicologico.

L’italiano come chiave di accesso ai diritti fondamentali della persona

In un contesto ora così strutturato e regolamentato, l’italiano era quindi inteso come chiave di accesso per conoscere e far valere i diritti fondamentali, insomma il passaporto per una migliore integrazione. Eppure rimaneva ancora un pretesto per parlare di sé con gli altri e non sentirsi troppo soli, espressione dunque di quel valore dell’accoglienza che, al di là della semplice solidarietà, rappresentava il principio stesso degli Astalli.

Migranti Palermo a scuola di italiano
Foto tratte dalle pagina Facebook del Centro Astalli Palermo

In un percorso che si ampliava, contando via via un centro ascolto, uno sportello di orientamento legale e lavorativo, un ambulatorio medico, un guardaroba, laboratori artigianali e un servizio di prima colazione, la scuola è infatti sempre rimasta il perno attorno a cui ruotavano tutte le altre attività, arricchendosi anche di un corso per il conseguimento della Licenza media, ottenuta per la prima volta nel 2004 da 3 studenti: un togolese, una polacca e una filippina.

Per Alfonso Cinquemani, presidente del Centro e membro storico della Cvx palermitana, se è così ancora adesso, lo si deve alla capacità di quel progetto linguistico di unire i volontari della prima ora attorno a un disegno destinato a diventare di ben più ampio respiro.

Il principio della condivisione, evidentemente, riguardava tutte le figure del puzzle che si stava componendo, qualunque fosse la posizione occupata da ciascuno

Oggi sono circa 1.000 gli immigrati che ogni anno passano dagli Astalli e dalla sua scuola d’italiano, sia nella sede del centro storico che in quella, distaccata, dell’Istituto Gonzaga. Alcuni, lo sappiamo bene, scappano dalla guerra e ottengono dalla Commissione Europea lo status di rifugiati che ne facilita il cammino. Altri, tuttavia, fuggono da fame e sete, o dai cambiamenti climatici che rendono impossibile la sussistenza in patria, e arrivano da noi privi, tra le altre cose, anche dei propri diritti e perciò certamente più fragili.

Cosa è cambiato in 20 anni…

A vent’anni di distanza dalla nascita di questa iniziativa a Palermo, dobbiamo purtroppo dire che nei loro Paesi di origine le cose per i migranti sono solo peggiorate: le guerre continuano nel silenzio globale, le condizioni economiche soffrono di sproporzioni visibilmente destinate ad aumentare e l’impatto del clima sulle principali fonti di reddito è sempre più radicale.

D’altra parte, che i cittadini del mondo non sono tutti uguali è stato ampiamente e tristemente dimostrato dalla gestione iniqua dei vaccini durante la recente pandemia.

Sono, insomma, necessità primarie – legate alla sopravvivenza prima ancora che alla vita – quelle con cui tante persone migranti arrivano nel nostro Paese. Allora la domanda che potrebbe attraversarci la mente diventa, forse, legittima: perché l’italiano?

Perché la lingua?

Provo a rispondere con tre suggestioni.
La prima la traggo da uno scritto su p. José de Acosta, missionario gesuita spagnolo nella provincia peruviana che, in una lettera inviata nel 1578 al Padre Generale, riferisce che la prima occupazione giornaliera di tutti i padri presenti è quella di esercitarsi linguisticamente, così da apprendere, nell’arco di qualche mese, i rudimenti necessari a praticare la Confessione e gli Esercizi Spirituali.

La lingua del posto è dunque vista come veicolo di missione, uno strumento da imparare a usare se si ha qualcosa di importante da testimoniare per la costruzione del Regno. Ma se l’equazione è esatta, allora i tempi ci dicono che anche a Palermo (e non solo) sono i migranti i nuovi missionari, sono loro che hanno qualcosa da dirci sul progetto di Dio per la razza umana, a noi non resta che dargliene il mezzo, la lingua, appunto.

La seconda traspare dalle pagine che p. Antonio Spadaro S.I. ha dedicato al linguaggio di Papa Francesco definendolo “orale”, perché pensato, già a monte, come dentro un’interlocuzione, un evento comunicativo a cui ciascuno può partecipare attivamente. La lingua, perciò, dev’essere semplice come lo è una lingua madre per i nativi, quindi materna e senza tante sovrastrutture, nonché frammentata per la sintassi imperfetta che caratterizza le frasi di chiunque parli d’amore e dunque anche di noi cristiani, in altre parole, il nostro biglietto da visita.

Infine, una nota che devo a quel pozzo di conoscenza linguistica dell’animo umano che sono i dialetti. Un proverbio siciliano recita:

Cu avi a lingua passa u mari,
chi ha la lingua attraversa il mare.

Mi viene da pensare che il Mediterraneo è solo il primo dei tanti mari fisici e non che i migranti devono attraversare, e che forse, allora, la nostra chiamata è quella di aiutarli a traghettare verso tutti gli altri.

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