21 Dicembre 2024
Cristiani nel mondoFocus

Intervista a padre Carmelo Giuffrida SI di ritorno da Nairobi

Trovare Dio nella baraccopoli di Nairobi

DI IDA NUCERA

Padre Carmelo Giuffrida, che risiede presso la Comunità dei Gesuiti della Chiesa di Sant’Ignazio a Roma, assistente delle due Comunità di Vita Cristiana che si trovano al Gesù Nuovo a Napoli, ha vissuto alla fine del mese di dicembre, insieme alla Onlus Giacomogiacomo, un’esperienza importante in Africa, a Nairobi. Rientrato dall’Africa, ha condiviso le sue prime risonanze, colme di emozioni forti, riflessioni profonde e ricordi vivissimi, che hanno dato spunto alla proposta di condividere con i lettori, attraverso un’intervista, l’esperienza vissuta.

P. Carmelo, quanto mi hai raccontato si intreccia ed è racchiuso in una tua frase, che dà sintesi e senso al tuo viaggio: «È stata un’esperienza di Dio», mi hai detto. Vuoi spiegarci meglio?

Esperienza di Dio che può essere narrata attraverso tre diverse sfaccettature. Prima di tutto, è stato incontrare i poveri e, attraverso loro, incontrare Dio.

Preparazione cibo a Nairobi

Dio che grida, chiedendoti aiuto, supplica di essere amato, di essere presente nella tua vita. A volte, chiede di essere coccolato attraverso bambini che là incontri. Dio ti scuote, chiedendo di stare accanto a tutti loro, di ascoltarli con l’anima. Una seconda sfaccettatura è Dio che si fa maestro e insegna.

Incontrare queste persone, è scoprire dei maestri di vita, non dei miserabili, dei reietti.

Nonostante quelle condizioni terribili, riescono a mantenere forti e alti i valori della vita.

Quando parli con loro, le loro parole sono parole di un Dio maestro che insegna come continuare a essere Uomini, malgrado condizioni disumane di vita, che insegna come continuare a essere credenti, malgrado un’esistenza faticosa, dolorosa che spingerebbe a non credere più a niente e a nessuno.

La terza sfaccettatura è il Dio che ti provoca, che pone l’inquietudine nel tuo cuore, aiutandoti a fare metànoia, e mutare ogni tua logica mondana.

Dopo essere stati a Nairobi, è difficile lamentarsi di qualcosa. Se sto soffrendo per un mal di denti e le notti sono difficili, e penso alle sofferenze di queste persone, il mio malessere non è nulla. E se le prospettive sono tutte riversate verso un successo, scopri che nell’insuccesso il Signore ti si rivela nella sua luce divina.

Si relativizzano tante cose. È un’esperienza che fa cambiare la prospettiva con cui ci si relaziona con gli altri, con le cose, con il mondo.

Tu sei partito con l’associazione Giacomogiacomo, che è un frutto bello, nato da un dolore che non ha chiuso il cuore, anzi l’ha aperto a chi vive in condizioni che non è facile immaginare… Puoi spiegare, a chi non la conosce, questa realtà di servizio?

Giacomogiacomo nasce da un’esperienza dolorosa, ma anche di vita, molto forte. Una donna, Paola e la sua famiglia, i suoi figli, sua sorella Laura vivono una perdita terribile: la morte del piccolo Giacomo. Con tutto l’inimmaginabile e immenso dolore, lei riesce, grazie anche all’aiuto della famiglia, della sorella, in particolare, e la sua fede vigorosa, a far fronte a questo dolore, ricreando vita, anzi è proprio la vita del figlio che su questa terra continua attraverso l’azione dell’Onlus Giacomogiacomo.

Gruppo Giacomogiacomo onlus con Paola Tommasini

Paola va in Africa, ha l’opportunità di incontrare le Sorelle dell’Annunciazione della Beata Vergine Maria, che in Italia vivono anche presso la mia comunità e inizia con loro un progetto, che non è di mera assistenza, ma di presenza reale, concreta. Non è soltanto l’impegno di quei 10 giorni in cui si va lì con i giovani, tanti, in questi anni da tutta l’Italia, ma continua per tutto l’anno.

Si sta con bambini, donne soprattutto, e giovani, si vive con loro, per come si può. Si sono costruite tre scuole, e altre realtà. Ma non è soltanto questo importante; ciò che rende l’esperienza una vera missione, è riuscire a stringere le loro mani, guardarsi negli occhi, ascoltarsi, entrare nelle loro case-baracche e condividere, anche se per poco, la vita. È un aiuto reale e concreto, lo stare con loro.

La sensazione di essere impotenti di fronte alla povertà della discarica di Nairobi è davvero schiacciante, mi ha colpito il tuo paragone con le baraccopoli del Cile da te conosciute, che – dicevi – non sono nulla rispetto a Nairobi. Quando si è lì, cosa cambia nel modo di sentire? Le splendide foto, non dicono tutto, perché mancano i 5 sensi, e tra tutti, dicevi l’olfatto, che resta e penetra nell’anima…

Sì, è l’odore all’inizio a colpire. Si prova una grande repulsione. Ma non è tanto l’impatto con l’odore in sé, quanto piuttosto l’odore del dolore, della sofferenza.

Questo odore te lo porti addosso i primi giorni, lo percepisci anche la notte, dopo esserti lavato, resta anche dopo la doccia.

Quando torni in Italia, lo senti ancora e, quando scompare, ti manca e ne hai nostalgia. Dunque questo odore cambia, se all’inizio è indice di un disagio, poi diventa segno di profonda relazione d’amore. Ricordo l’episodio di un bambino, che avrà avuto meno di un anno e provava a camminare. Io stavo tagliando una siepe dalle suore, mentre le donne erano attente a lavorare a maglia, perché si insegnano loro a fare dei lavoretti che possono vendere nei mercatini.

Il bambino cade e inizia a piangere, ma nessuno se ne accorge. Lo vado a prendere. All’inizio continua a piangere e con forza si aggrappa a me, io lo abbraccio e lo cullo. Così, piano lui si rilassa e si addormenta. Si è talmente rilassato, sentendo il calore del corpo e la ninna nanna in siciliano, che mi ha fatto la pipì addosso. Mi ha benedetto! Questo odore, insieme al fatto che il bimbo era sporco, l’ho sentito addosso, è penetrato dentro, nel profondo del cuore. È l’odore della fatica ed è la tenerezza di un bimbo che riposa sentendosi accolto. È così che diventa un odore di relazione d’amore, di contatto con il Signore.

È un’esperienza che si trasfigura…

Si trasfigura, ne senti una nostalgia, una malinconia incredibile, soprattutto per una persona come me, che ha sempre desiderato i figli, ma il Signore mi ha chiesto di fare il sacerdote…

I bambini di lì in cosa sono diversi dai nostri che hanno tutto?

Sono bambini a cui manca tutto, eppure sono felici. E non chiedono giocattoli o soldi, forse qualche bambino ti mette le mani in tasca, pensando di trovare chissà cosa. Ma questo è normale. Quello che chiedono è di stare con loro, di giocare, essere coccolati. A loro manca perfino l’acqua.

Padre Carmelo Giuffrida con ragazzino di Nairobi

Oggi, in Occidente, non si toccano i bambini. Un po’ per gli episodi che purtroppo sappiamo di abuso. Avvicinarsi a un bambino può diventare pericoloso, mentre là i bambini vogliono le coccole, le carezze, vogliono giocare con te. È un’esplosione di vita, in quella povertà esistenziale.

Ti racconto quella che per me è stata una grazia fondamentale. Quando entrai in Compagnia, durante il mese ignaziano, il padre maestro Franz Tata, ci diede da meditare l’Incarnazione: entrare nella grotta, guardare il Bambino, la Madonna, san Giuseppe. Quando la feci per la prima volta questa meditazione, chiesi alla Madonna di farmi tenere in braccio il Bambino. Ma era come se lei non me lo volesse dare. E non me l’ha dato. Ogni volta che facevo questa meditazione, tante volte nella mia vita, Lei non mi ha mai dato il Bambino. Quindi nel mio cuore è rimasto sempre il desiderio, era come una nostalgia, pensare che almeno in una contemplazione ciò si avverasse, ma Maria non me l’aveva mai concesso.

Quando eravamo a Nairobi, c’era una donna che aveva un neonato tra le braccia e lo stava allattando. In quel momento, mi è venuta in mente la contemplazione di sant’Ignazio e la mia richiesta a Maria. Quando lei finisce di allattare, lentamente mi avvicino per chiedere come si chiamava il bambino. La mamma mi ha guardato e mi fatto un sorriso di una tenerezza e di una dolcezza che non dimenticherò mai. Poi, senza che io abbia chiesto nulla, mi ha dato il bambino tra le braccia. In quell’istante ho capito che la Madonna aspettava il momento giusto perché io potessi abbracciare il Bambino.

Grazie per questa bella comunicazione, Carmelo. A Nairobi hai potuto fare una profonda riflessione sulla fede che si vive lì e di come siamo diversi, noi che abbiamo razionalizzato tutto. Anche la liturgia eucaristica, quanti anni luce è diversa?

La liturgia è l’espressione esterna di una dinamica di fede profondissima che noi abbiamo perduto. Abbiamo talmente razionalizzato il rapporto con Dio, che tutto è diventato una questione di logica. In passato abbiamo avuto la Scolastica, oggi anche la nostra teologia usa la logica per rapportarci al mondo. Loro, invece, ancora vivono questa dimensione come qualcosa di connaturale all’essere umano. Il sacro è dovunque. Lo percepisci, lo senti, te lo fanno gustare.

Padre Carmelo con gruppo in strada a Nairobi

Capisco dalle tue parole perché mi avevi parlato di esperienza mistica…

Quando parlano, di qualsiasi cosa parlino, l’unico riferimento è sempre Dio. È sempre un ringraziare Dio. Il Signore è protagonista, perché lo percepiscono ovunque. In quelle miserabili baracche, dove non c’è veramente nulla, in quel nulla c’è Dio. Loro lo sentono, lo percepiscono e lo annunciano. Naturalmente nelle liturgie si coglie profondamente. Pur vivendo in condizioni di miseria assoluta, vanno in chiesa per fare festa, per cantare, per ballare, perché c’è un Padre che è con loro, anche nella desolazione e nella miseria. La presenza del Padre è sempre motivo per essere felici. La testimonianza più forte e vera è che Gesù è la Buona notizia e attorno a lui la vita è festa.

Messa a Nairobi con padre Carmelo Giuffrida

In Africa la comunità è protagonista, da noi dobbiamo prendere coscienza che siamo passivi e spenti. Possiamo cambiare?

Per l’Occidente l’unica speranza è, a parer mio, recuperare l’autenticità. Vedi, noi oggi viviamo delle verità falsate, delle pseudo verità, tutto parla attraverso delle immagini che sono delle costruzioni false. Ci mettiamo continuamente maschere, l’apparire per noi è fondamentale, e ciò che deve apparire è la ricchezza, il potere, la forza, la bellezza esclusivamente estetica, di apparenza, appunto.

L’apparire è linguaggio. Attraverso il linguaggio passa Dio. Falsificando il linguaggio, si testimonia l’Idolo. Falsifichiamo le nostre vite con preconcetti esistenziali su noi stessi e sugli altri, cerchiamo di realizzare progetti di vita preconfezionati secondo canoni luccicanti e risplendenti di vanità, quindi, il fallimento è immancabile, la desolazione, l’angoscia, e la fatica.

In Africa si è puri, si appare per quello che si è. Nessuno cerca potere, ma una mano da stringere. Ho incontrato una persona malata di Aids, si è seduta accanto a noi e parlava della sua malattia, della sua storia, delle cose che erano avvenute, senza nessuno scandalo, senza paura. Nonostante tutto quello che le era successo, la malattia, in lei e per lei c’era Dio che le dava sicurezza, speranza, la amava e si prendeva cura di lei. Quello che dice sant’Ignazio, di vedere Dio in tutte le cose, è per noi, spesso, una fatica immensa. A Nairobi, invece, è immediato, è ancora naturalmente connaturato all’essere figli di Dio che riconoscono il Padre.

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2 pensieri riguardo “Intervista a padre Carmelo Giuffrida SI di ritorno da Nairobi

  • Ida grazie, molto bella questa inervista

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    • Grazie per averla letta e per l’apprezzamento :))

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