16 Luglio 2024
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Costituzione e autonomia differenziata: cosa sperare?

DI ANTONIO CERVO

L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha organizzato a Napoli un incontro sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, al centro di un dibattito, strenuo e divisivo al tempo stesso, fra maggioranza e opposizione. Il tutto in un gioco di specchi stucchevole che crea confusione in molti di noi, quasi inerti di fronte a fenomeni come questo, capaci di modificare radicalmente il nostro Paese.

In quest’ottica, sulla scia di Hegel (convinto nel valorizzare sempre le differenze per giungere a sintesi in ogni cosa) e più ancora alla luce di Benedetto Croce, che tradusse proprio quel pensiero nella Napoli degli anni ’20, l’Istituto ha voluto accendere i riflettori sull’ineludibilità di questo tema, senza risparmiare provocazioni a un dibattito politico troppo spesso anestetizzato dai mass media. Ad accompagnare sono stati, in particolare, Marco Esposito (già firma di Repubblica, oggi editorialista economico de Il Mattino) e Carlo Iannello, docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università Luigi Vanvitelli.

A oggi – va precisato da subito – si tratta di un work in progress (la speranza è, quindi, che il Parlamento corregga quelli che per ora appaiono degli svarioni giuridici, oltre che di metodo), di cui sinteticamente qui di seguito fotografiamo i tratti salienti.

Autonomia differenziata: un regionalismo che nasce da lontano

Giova ricordare che una forma primordiale di “differenziazione” (valorizzazione del ruolo e delle competenze degli enti locali rispetto allo Stato centrale) era, innanzitutto, già presente nei lavori preparatori alla Costituzione del 1948. Si pensi al manifesto del Partito Popolare di don Sturzo, dove forme di regionalismo sono lette (non a torto!) come strumenti positivi per calibrare la gestione di determinati beni e servizi sulle effettive esigenze delle comunità territoriali (l’ente locale è più prossimo, cioè più vicino ai cittadini, rispetto “al lontano Stato centrale”).

Dal 1948 in poi, tuttavia, veri e propri progetti di devolution (trasferimento di funzioni dallo Stato centrale agli enti locali) non sono stati realizzati: probabilmente – sostiene qualche storico – perché molti partiti nazionali di massa (Dc e Pci su tutti) temevano che, facendo diversamente, si sarebbe divaricata oltremodo la forbice delle differenze storiche fra Nord e Sud. Il ragionamento di fondo era che mai si sarebbe potuto mettere a rischio l’unità nazionale: la responsabilità etica del buon governante nazionale è quella di badare a che tutti abbiano le stesse chance, non dimenticando chi zoppica pur di premiare chi riesce a correre più veloce. Non era e non è questa la logica sottesa alla Costituzione italiana.

Il neoliberismo contagia le parole

“Le parole sono importanti. Chi parla male, pensa male. E vive male” gridava Nanni Moretti qualche decennio fa. Ebbene, col tempo, alla parola “responsabilità”, usata dalla politica d’un tempo, si sostituiscono oggi parole come “efficienza”, “ottimizzazione di un risultato”, “massimizzazione del profitto”, “output”.

Non si tratta solo – a ben vedere – di un’occasione per il dizionario Zingarelli di aggiornarsi. Si tratta di un nuovo modo di percepire le cose, di sentire noi stessi, di tendere l’arco della politica: è l’ingresso dell’economicismo nel sentire politico, la vittoria della logica di mercato sulle prerogative dello Stato. Qui, lo Stato non è più garante di solidarietà fra soggetti, né cerniera tra Regioni più o meno virtuose; chi è più “performante” non può più aspettare, quasi come se il tempo fosse terminato. Da adesso ogni Regione deve fare per sé. Prendersi carico di un altro da sé è “antieconomico”. Proprio questa nuova logica neoliberista è, invero, alle spalle di parole come “secessione”, “indipendenza”. Lo è anche dietro a quella di “autonomia differenziata”?

Il fabbisogno di ogni Regione si calcola sul suo gettito

Cuore pulsante del ddl Calderoli è l’idea che il piano dei fabbisogni di una comunità (di una Regione) deve calcolarsi sulla base del gettito registrato in quel territorio. Tradotto: la domanda di beni e servizi deve redigersi sulle tasse pagate/incassate da quel dato territorio. Questo significa che, ad esempio, l’Emilia Romagna, da regione industrializzata e rilevante sul piano contributivo, potrà avanzare più richieste in termini di nuove scuole, nuovi asili nido, nuovi ospedali, a differenza della Basilicata. Qui si insinua il “virus dell’Italia a due velocità”, qui si fonda soprattutto la “legittimità” della richiesta di “chi più ha” a pretendere (“sei bravo, hai diritto ad avere”); “chi non ha” non può pretendere alcunché (“non sei bravo, è colpa tua, non hai diritto ad avere”). Tutto ineccepibile sul piano economicistico.

Dov’è, però, l’eguaglianza formale e sostanziale della Costituzione? Dove la solidarietà fra consociati? Dove il sogno dei costituenti di un’“Italia (veramente) una e indivisibile”?

Come se non bastasse, il ddl Calderoli intende realizzare il suo progetto “a saldi invariati” per il bilancio dello Stato. In altre parole: le Regioni avvieranno l’autonomia differenziata ognuna con le proprie risorse (lo Stato non interverrà a colmare nessun divario). Ecco perché durante una delle ultime audizioni in Parlamento c’era chi stigmatizzava quanto segue.

“Vediamo un analfabetismo costituzionale […]. Il legislatore dovrebbe leggersi quantomeno la giurisprudenza della Corte Costituzionale dove si ripete spesso che bisogna garantire solidarietà e uguaglianza. La distribuzione delle risorse non può danneggiare alcune Regioni”. Ancora, non è un caso se “La maggioranza assoluta dei costituzionalisti italiani si è espressa contro la riforma Calderoli” (Lorenzo Chieffi, docente di diritto costituzionale – Università Luigi Vanvitelli).

Possibili rischi

Tra i due principali rischi (ne citiamo due solo per esigenze di sintesi!) di un’Italia solo dei “virtuosi” c’è, innanzitutto, la cosiddetta migrazione intellettuale (laureati del Meridione che spopoleranno via via i loro paesi, costretti a trovare migliori lavori al Nord), ospedaliera, ecc. Ma un altro scenario praticabilissimo sarà quello che potrà vedere le Regioni più ricche redigere (a livello locale) contratti di categoria integrativi: un docente di scuola media sarà ben più attratto, per esempio, ad andare a insegnare in una Regione “benestante”, dove gli viene corrisposto un quid pluris di stipendio, rispetto a un suo collega che vuole restare nella Regione più svantaggiata.

L’escamotage dei Livelli Essenziali di Prestazione

Per il Prof Iannello, la fissazione dei Livelli Essenziali di Prestazione (Lep) è, invero, un’operazione tanto complessa quanto ambigua. I Lep rappresentano, infatti, il minimum che ogni Regione sarà sempre e comunque tenuta a garantire nell’erogazione dei propri servizi. Ebbene, quest’argomento viene addotto per anestetizzare il dibattito, assicurando che in fondo ogni Regione non potrà mai andare al di sotto di certi standard fissati ex ante. Ma – come viene sottolineato – i Lep rappresentano, invero, il solo “minimo sindacale” dei servizi: laddove un cittadino avesse bisogno di quel “di più” (ad esempio di prestazione ospedaliera nelle cure), sarà comunque costretto a virare verso i lidi di altre Regioni. Veramente, allora, l’argomento dei Lep allevia il “rischio di nuove diseguaglianze”?

Chi è senza peccato…

Chi è il primo responsabile di queste “nuove architetture”? È una ricerca difficile: la tentazione autonomistica ha serpeggiato, invero, tanto a destra quanto a sinistra. Se senza dubbio la Lega Nord ha posto storicamente la questione sul tappeto in modo roboante, è altrettanto vero che la Riforma del Titolo V (legge costituzionale 3/2001, riforma madre per la devolution) è sottoscritta da un governo di centrosinistra (gli stessi che oggi osteggiano il ddl Calderoli).

Analogamente, Presidenti di Regione che oggi appaiono in prima fila contro questo progetto sono gli stessi che pochi anni fa reclamavano a gran voce l’autonomia per la propria Regione, come ricorda Marco Esposito (vedi Vincenzo De Luca e Stefano Bonaccini). Partiti a vocazione nazionale, come Alleanza Nazionale, misero più di un bastone fra le ruote ai governi Berlusconi, perché non si attuassero pericolose fratture dell’unità e solidarietà nazionale caldeggiate dai propri alleati; pochi anni fa, su questa scia, Fratelli d’Italia (oggi al governo!) depositava in Parlamento un disegno di legge per smantellare quanto messo su dalla Riforma del Titolo V, definita nel 2001 da Gianni Ferrara (costituzionalista, parlamentare della Sinistra indipendente) un “manifesto di insipienza politica e giuridica”.

Dopo quella riforma, Natalino Irti (fra i più grandi giuristi contemporanei) sosteneva “L’antica unità del Paese si è sgretolata”. E allora: perché proseguire su certi crinali? Forse perché sono cambiate le parole, forse perché è cambiato il (nostro) modo di pensare e perché l’economicismo ci ha resi tutti un po’ più diversi…

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