Abuso d’ufficio: nemico da infilzare o amico da difendere?
Un doveroso approfondimento sull’abuso d’ufficio alla luce delle recenti coordinate della Riforma della Giustizia
A CURA DI ANTONIO M. CERVO
Se c’è un reato che in Italia ne ha viste di cotte e di crude, probabilmente è proprio il reato di abuso d’ufficio, strattonato nel corso del tempo dai vari governi, ogni volta più titubanti sul raggio d’azione da assegnare a questa fattispecie.
Perché la norma sull’abuso d’ufficio è al centro di tante questioni
Al di là della schizofrenia galoppante dei vari legislatori, diciamo che, in realtà, la centralità di questa norma (per i non addetti ai lavori forse è semplicemente una tra le tante del nostro codice penale…, nonostante il gran parlare di queste ore) è tale perché effettivamente crocevia di una serie di questioni.
Chi non vuole che a ogni cittadino sia assicurata la cosiddetta “buona amministrazione” (una Pubblica Amministrazione che usi cioè, ad esempio, il denaro pubblico in modo efficiente e soprattutto imparziale)? Chi non vorrebbe forme di controllo sul corretto operato dei funzionari pubblici, specie di fronte alle piccole e grandi forme di corruzione? Quanto leggiamo negli articoli 97 e 98 della nostra Costituzione è un pio sogno (“i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”), specie per il caso di appalti truccati? O è invece un metronomo che veramente deve e può scandire il ritmo dell’agire dei funzionari pubblici?
Abuso d’ufficio sì, abuso d’ufficio no
Ebbene, tutte queste domande si nascondono dietro il ping pong sull’abuso d’ufficio sì, abuso d’ufficio no, riedito dalla riforma della Giustizia 2023, di cui stiamo leggendo le prime coordinate in queste settimane.
Con un dibattito tambureggiante, che già polarizza inutilmente la discussione, quasi come nel film di Alberto Sordi “Scusi, lei è favorevole o contrario?”. In verità, polarizzare la discussione serve a ben poco, specie perché non aiuta a cogliere tutta la complessità di un fenomeno, che fatica a essere incapsulato in un semplice “sei pro o contro?”.
Ha ancora senso parlare di “abuso d’ufficio”?
Fra le principali domande sollevate c’è, in particolare: ma oggi, nel XXI sec, ha ancora senso parlare di “abuso d’ufficio”? Una figura dietro cui si celano da sempre opposte ricostruzioni, non solo dal punto di vista dell’etica pubblica (essendo una sorta di misuratore dell’imparzialità e dell’integrità dei nostri amministratori) ma anche da quello economico.
Una premessa doverosa: le pennellate sull’argomento non vorranno assolutamente condizionare chi legge sulla soluzione da preferire, ma solo tratteggiare delle linee guida che possano tornare utili per orientarsi nei mesi di vibrante dibattito che sicuramente ci attendono.
Un po’ di storia
L’opportunità di contemplare o meno l’abuso d’ufficio nel codice penale è, in realtà, un problema antico. Al di là delle varie polemiche alimentate da una parte e dall’altra in queste ore, l’art. 323 del Codice penale (che punisce il pubblico ufficiale che procuri a sé o ad altri ingiusti vantaggi o arrechi danni ingiusti a terzi in base al suo “status”) sconta dei difetti di impostazione fin dal tempo in cui fu redatto il codice Rocco.
Molto attento nel contrastare ogni forma di malaffare nella vita quotidiana della “macchina pubblica”, il legislatore del 1930 dispiegò un considerevole numero di reati tesi a sanzionare le più svariate forme di illecito nel mondo della Pubblica Amministrazione. Si pensi ai reati di corruzione, di peculato, di concussione…
Il sistema che ne derivò fu quello, alla fine, di un tessuto normativo in grado di captare quasi tutte le ipotesi di illecito, al fine di preservare non solo il prestigio della PA ma anche la sostanza stessa dei servizi offerti al cittadino.
“Abuso d’ufficio ad abundantiam”
In tale contesto, quello stesso legislatore intese coniare, altresì, la fattispecie dell’abuso d’ufficio ad abundantiam (come detto da certa dottrina), con il fine cioè di colpire tutte quelle ipotesi criminose che, per qualche ragione, avessero rischiato di non esser sanzionate dagli altri reati già inseriti nel codice penale. Proprio qui, in realtà, iniziò la travagliata storia dell’abuso d’ufficio.
Infatti, da subito, si presentò come un “reato residuale” (che aveva un raggio d’azione, a ben vedere, assai circoscritto), esistendo già fattispecie molto più efficaci per contrastare proditorie operazioni in ambito pubblico (si pensi al cd “peculato per distrazione” o al vecchio reato ex 324 cp, poi abrogato).
Peraltro – ecco il secondo tallone d’Achille – da sempre molti autori criticavano l’eccessiva genericità e vaghezza della norma: lo stesso concetto di “abuso”, ad esempio, è un concetto di per sé troppo etereo (ove non ancorato a parametri certi) per legittimare una sanzione in ambito penale, potendovi far rientrare una moltitudine troppo indistinta di condotte!
Il legislatore interviene
Con il tempo, tuttavia, l’abuso d’ufficio s’imbatte in una serie di traversie legislative, dove da reato quasi secondario (quale di fatto era nell’originario tessuto normativo del 1930) diventa (involontariamente?) una delle norme portanti dei reati contro la Pubblica Amministrazione.
Infatti, una serie di interventi più o meno scomposti dei vari legislatori abrogano o depotenziano quegli stessi reati verso cui – fino a quel momento – l’abuso d’ufficio era stata norma ancillare (come accennato, l’abuso d’ufficio interveniva solo nei rarissimi casi in cui reati, come il peculato per distrazione o quello di interesse privato in atti d’ufficio, non riuscivano a punire determinate condotte!). Il risultato? Il risultato è, quindi, che l’art 323 veniva chiamato ad assolvere – suo malgrado – a compiti molto superiori rispetto alla sua originaria capacità.
Qual era il vero problema?
Era che, per assolvere a tali nuovi compiti (contenere e sanzionare, cioè, condotte che non trovavano più contemplazione in altre fattispecie), c’era di fatto sempre la stessa norma del 1930 (nonostante qualche sforzo successivo di “attualizzarla”). La quale veniva percepita spesso come inadeguata a divenire norma cardine di un sistema! Restava per molti una norma troppo vaga (lontana dai principi di tassatività e determinatezza, cari al diritto penale), in grado quindi di rallentare o bloccare una quantità significativa di azioni del pubblico funzionario. Quest’ultimo… per non incorrere in incriminazioni ben preferisce rifugiarsi spesso dietro la cosiddetta “burocrazia difensiva” (non firmare nessun atto, temporeggiare, ritardare i tempi dell’azione amministrativa ogni volta che sia lambito da un rischio o da un’ombra, seppur obiettivamente lontana, sull’opportunità/liceità del suo agire).
Il dibattito
Per questi motivi, fin in dagli anni ’60, il Parlamento riaccende i riflettori sull’abuso d’ufficio (risale al 1965 un famoso intervento del noto giurista friulano Giuseppe Bettiol che lo definisce “relitto borbonico” contrario al principio di legalità!).
Fra le principali critiche mosse all’art 323 (da parte di chi aspira ad abolirlo) c’è, infatti, oltre alla cattiva prassi della “burocrazia difensiva” di cui sopra (sinonimo di immobilismo della PA), quella dell’inefficienza della “macchina amministrativa”.
La posizione dell’Anci sull’abuso di ufficio
Come anche in passato stigmatizzato dall’Anci (Associazione nazionale comuni italiani), infatti, l’abuso d’ufficio si traduce troppo spesso in una fastidiosa spada di Damocle, che disincentiva la PA dall’agire con tempestività ed efficacia. Gli amministratori sono cioè restii a firmare atti o rilasciare provvedimenti per paura d’essere incriminati: causa questa – tra le altre – della riluttanza di molti soggetti stranieri a investire in Italia (tempi della giustizia e della burocrazia oggettivamente biblici.
Rapporto imputazioni vs condanne
Seconda critica: al di là dell’intrinseca complessità sul piano probatorio (non è facilissimo provare l’integrazione di questi fatti), l’abuso d’ufficio vanta – dati alla mano – una reputazione non molto gloriosa circa il “rapporto imputazioni vs condanne”. Solo nel 2021 su 5418 procedimenti definiti dall’ufficio Gip/Gup in tutt’Italia, le archiviazioni sono state 4613 (Il Sole 24 Ore), con pochissime condanne maturate. Il pericolo è, dunque, che l’abuso d’ufficio sia diventato più che altro una sorta di mero dissuasore dalla “buona e rapida amministrazione”, dato che, all’atto pratico, pare un reato sempre singhiozzante, incapace di arrivare al suo reale obiettivo sanzionatorio.
In realtà, va detto che essere troppo tranchant verso l’art 323 rischia di essere ingeneroso. Nonostante le sue oggettive difficoltà, questa figura ha rappresentato e rappresenta, infatti, comunque l’unica copertura nei confronti di una gamma enorme di condotte che rischierebbero, altrimenti, di non avere contemplazione nel codice penale. Sdoganando così una serie di fenomeni che finirebbero nella “zona franca” del non penalmente rilevante, specie in un Paese come il nostro che ha uno dei più alti tassi di corruzione in Europa (si pensi alle manipolazioni di concorsi pubblici o al condizionamento della gara d’appalto da parte del sindaco di turno, che fa vincere l’amico d’infanzia anziché l’imprenditore più valido).
La terza via
Quindi – secondo un’altra scuola di pensiero – la cosa migliore potrebbe essere imboccare una “terza via”. Quella, cioè, che non punterebbe né all’abolizione del reato né tantomeno alla sua sterile conservazione: meglio sarebbe una sua riscrittura, così da renderlo meno invasivo e più duttile a intercettare determinati fenomeni illeciti (strada anche questa non priva di perplessità: non da ultimo nel 2020, il reato è stato riscritto, limitandone già il raggio d’azione). Ridurne ulteriormente lo spettro non renderebbe l’art 323 una fattispecie buona solo a intimidire, ma svuotata di qualsiasi reale capacità sanzionatoria. Così come altra ipotesi potrebbe essere abolire sì l’abuso d’ufficio, ma allargando contestualmente lo spettro di altri reati (come quello di turbativa d’asta o alcune ipotesi di peculato), che supplirebbero in tal modo al venir meno dell’abuso d’ufficio.
Conclusioni
Come accennato, questa ricostruzione non avrebbe voluto e non ha voluto dare alcuna soluzione al dibattito. Non sarebbe stato opportuno oltre che sensato, perché si tratta di una questione caleidoscopica. Questione che, appunto perché involgente una pluralità di aspetti, merita da parte di tutti, specie della politica, grande serietà di analisi e di confronto, interagendo con tutte le categorie degli operatori del diritto. Perché, come diceva il teologo Paul Tillich:
la bontà di una soluzione è sempre riposta nella sua capacità di riuscire ad abbracciare tutte le diverse possibilità.
E così può e dovrebbe essere anche per l’adozione di norme così delicate. Dove una legge può arrivare a dirsi veramente “buona” quando è in grado in qualche misura di saper venire incontro, con sapiente contemperamento, alle diverse angolazioni di un problema.